Aprii gli occhi con difficoltà. Un leggero velo sembrava interporsi tra me e tutto ciò che mi circondava.
Mi trovavo all'ospedale.
Ero confuso, sapevo cosa mi era successo, lo ricordavo perfettamente, eppure il mio subconscio rifiutava di riconoscerlo. Non era facile prendere coscienza del fatto di aver avuto un infarto.
Attorno a me altri pazienti della terapia intensiva, come me attaccati ai macchinari che permettevano agli infermieri di controllarci a distanza. Di tanto in tanto un "bip" più intenso del solito attirava la loro attenzione, qualcuno si avvicinava a controllare.
A volte si trattava della flebo che era terminata, altre volte invece gli infermieri chiamavano il medico e cominciavano ad agitarsi attorno al letto del malcapitato...
Ma tutto ciò è abbastanza normale in terapia intensiva.
Dopo qualche giorno mi spostarono in terapia subintensiva, un posto un po più tranquillo, dove ci si poteva alzare dal letto, andare in bagno senza dover chiedere la padella o il pappagallo (strumenti inventati solo per farti sentire inutile), lavarsi da soli e fare un po di vita sociale con i compagni di camera e con i visitatori. Di tanto in tanto arrivava anche qualche volontario, sempre allegro e pronto a scambiare quattro chiacchiere, anche se non sempre ne avevo voglia, oppure un parroco che si guardava intorno e poi, in silenzio, così come si era avvicinato si allontanava... quasi non volesse disturbare i nostri pensieri con presagi spiacevoli.
La notte cercavo di dormire, cercando di ignorare i dolori al petto, dimenticando il mal di schiena e tutti gli aghi che avevo infilati nelle braccia, sperando che non si staccassero i sensori, altrimenti un infermiere sarebbe arrivato a svegliarmi per riattaccarmeli, e poi chi riusciva a riprendere sonno?
Una anziana signora che stava nella stessa stanza ci intratteneva con le sue urla continue. Di notte urlava e di giorno dormiva e noi stavamo svegli.
Poi finalmente le dimissioni.
Un bel giorno il medico mi disse che dopo pranzo potevo uscire, finalmente!
Preparai le mie poche cose e ricevuto il foglio di dimissioni e delle cure da seguire rientrai a casa.
Quella notte non riuscivo a prendere sonno, la preoccupazione di non essere controllato era tanta. Stare all'ospedale dava una certa sicurezza che ora mi mancava. Ogni dolore sembrava amplificato dalla paura. Ogni battito cardiaco, ogni tremore, ogni crampo, sembrava l'annuncio di un nuovo infarto e l'inizio della fine... ma si trattava solo di sensazioni, e col tempo ci avrei fatto l'abitudine.
Nelle ore passate insonni pensavo e ascoltavo i rumori, il vento fuori dalla finestra, una macchina per strada, qualche cane abbaiare, il bisbiglio di un bambino...
Poi la mattina dopo iniziava la cerimonia dei medicinali, una, due, tre pastiglie. Quella per lo stomaco, quella per la pressione, la betabloccante, la cardioaspirina...
Solo se ti capita ti rendi conto delle libertà perdute! Ma bisogna cercare di non pensarci e andare avanti, cercando di tornare alla normalità, poco per volta.
Dopo i primi giorni potevo finalmente uscire di casa, fare qualche passo era utile, occorre camminare per riprendersi velocemente, pressione permettendo!
E la sera di nuovo a letto presto, cercando di evitare di pensare a quello che può succedere la notte. Perchè la paura è che ti addormenti e non ti svegli più!
Allora prendere sonno è faticoso, e così si passa qualche ora a rivoltarsi tra le coperte ascoltando i soliti rumori... il vento del giorno prima, che però ha cambiato direzione, la solita macchina del solito ritardatario, i ragazzi che passano sotto casa al rientro di una serata in discoteca, i bisbigli di un bambino...
Strano, è già la terza notte che un bambino passa sotto casa, per un istante, bisbigliando qualcosa di incomprensibile.
La mattina, dopo la colazione a base di te, fette biscottate e marmellata e le solite medicine, approfitto della bella giornata per fare quattro passi. Sotto casa c'è un piccolo parco, mi siedo in una panchina e mi godo il sole. Qualcuno mi passa vicino ignorandomi, ma non mi riguarda. Le fronde degli alberi si muovono spinte da un fresco venticello di primavera, i cani giocano con i loro padroni nello spazio loro riservato.
Rientro a casa e la giornata passa come le altre, mangio, leggo, mi riposo e passo il tempo cercando di riprendermi.
La notte arriva inesorabile e con il buio la solita insonnia, la solita macchina e il solito bambino che bisbiglia...
Cosa dici - penso - non capisco, non ti sento bene...
Il bisbiglio si fa più forte, poco a poco sempre più distinto, si trasforma in una voce...
Chi sei, perchè mi chiami...
- Finalmente, seguimi, non puoi restare più qui... il tuo posto è altrove!
Fu questione di un attimo. In quell'istante realizzai finalmente ciò che era successo, chi veramente ero...
Il dolore sparì, le ansie e l'angoscia mi lasciarono per sempre, la paura di morire non aveva più senso, nella mia nuova condizione di fantasma...
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO