lunedì 30 dicembre 2013

Il Signore degli anelli, di J.R.R. Tolkien

Ho letto per la prima volta il romanzo fantasy "Il signore degli anelli" all'età di quindici anni.
Si trattava di un volume unico di mille cinquecento pagine quasi impossibile da tenere in mano.
Comprendeva anche "Lo Hobbit" come prima parte della storia. Ricordo ancora che stavo per soccombere alle trecento pagine dello Hobbit, l'idea era di abbandonare la lettura, troppo descrittiva e troppe poesie per i miei gusti di quei tempi. Poi, finalmente arrivò il bello della storia, il signore degli anelli!
Ricordo che lessi il libro quasi senza interruzioni anche se era periodo scolastico e quindi non potevo dedicarmi solo a quello. I personaggi erano affascinanti, le ambientazioni magiche, le battaglie cruente, il grande mago, Gandalf il grigio, semplicemente fantastico!
Nonostante la dimensione del libro, nel giro di qualche giorno lo restituii alla biblioteca di Isili.
Passò qualche anno e non appena ebbi uno stipendio "Il signore degli anelli" divenne parte importante della mia biblioteca, seguito dai racconti incompiuti. Ben prima che Peter Jackson e il suo staff producesse il film!
Ora, da questo natale, grazie a mia moglie e a mio figlio, anche il cofanetto dei film fa parte della mia collezione.
Complimenti al regista e allo staff per esser riusciti a trasformare in immagini le parole di un così grande scrittore! Anche se alcuni personaggi molto caratteristici possono essere apprezzati per intero solo nel testo scritto, è il caso di Tom Bombadil, per esempio, che parlava per mezzo di poesie...
Un omaggio a John Ronald Reuel Tolkien (nato nel Sudafrica britannico nel lontano 1892, morto in Inghilterra nel 1973), autore di una fantastica saga, che ha fatto sognare tante persone che ancora oggi lo ricordano.
Un omaggio alla sua opera, "Il Signore degli anelli", pubblicato nel 1954 e in Italia nel 1970.
Grazie John Ronald Reuel Tolkien, o più semplicemente J.R.R.Tolkien, grazie per tutto ciò che ci hai lasciato... una fantastica eredità che arricchisce il mondo e stimola la fantasia!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

mercoledì 18 dicembre 2013

Parole, soltanto parole...

- Chiare e ben distinte, mi raccomando!
Mi dice l'assistente di regia senza guardarmi in faccia. Sono solo una delle tante centinaia di ragazze in fila per il provino, alla ricerca di un posto da doppiatrice.
- Legga prima di tutto le due pagine che le daranno l'idea del contesto, si cali nella parte e poi quando le faccio cenno legga la frase che ha sul foglio, quella in neretto.
Cerchi di dare il massimo la prima volta, non c'è un secondo tentativo. Oggi è tardi...
Come dire, diamoci una mossa che me ne devo andare a casa. Grazie per l'incoraggiamento, mi verrebbe da dire, ma poi mi trattengo, nel mondo dello spettacolo sono tutti suscettibili e non vorrei che mi cacciassero senza neppure aver provato a leggere la mia frase "in neretto".
- Si ricordi di avvicinarsi bene il microfono alle labbra
Si, lo so, è il settantaquattresimo provino che faccio!
Pensai, senza aprir bocca. La guardai in faccia sperando che alzasse lo sguardo ma ancora una volta l'assistente di regia mi ignorò, sembrava lo facesse apposta. E poi quando parlava era così impersonale, semprava che parlasse al muro, non ad una persona. Odiosa...
- Ha detto qualcosa? Non ho sentito bene...
Accidenti!
Che mi fosse sfuggita una parola? E ora? Cosa dovevo rispondere? Forse era meglio far finta di niente... Meglio girarsi dall'altra parte e far finta di non aver sentito. Eppure mi era parso, per un attimo, che mi avesse guardato in faccia, proprio mentre pensavo che era odiosa. Che sfiga! E se mi avesse letto nel pensiero? Ma no, è impossibile, queste cose accadono solo in tv e nei romanzi. Probabilmente avrò mosso le labbra e lei avrà intuito qualcosa. Magari le sono antipatica, come lei è antipatica a me. Se fosse così sono rovinata!
- Aspetti un attimo, la regia non è ancora pronta...
Che strega, ancora quella voce stridula nelle orecchie. Non la sopportavo proprio. Non vedo l'ora che finisca questo provino, e dire che questa mattina non volevo neanche venire! Che razza di vita, non ne posso proprio più! E se dovessero assumermi come farò? Non credo che la sopporterei tutti i giorni.
- Può andare, è il suo momento...
Se mi dovessero assumere... avrei fatto di tutto per starle lontano...
- Signorina tocca a lei...
Se mi dovessero assumere farò di tutto per farla licenziare. Non la sopporto proprio, non la posso vedere ne sentire...
- Signorina, legga la sua frase, quella in neretto...
Se mi assumono... devono assumermi! Io sono brava, sono la migliore e poi...
- Signorina, la prego, non faccia come le altre volte, legga la sua frase!
Ormai ho una certa esperienza di provini!
Tutta colpa di quella strega, non la sopporto!
- Signorina, la prego, non so più che fare per aiutarla. Dica qualcosa, la prego...
Non può andare avanti così!
L'assistente di regia mi guardava dritta negli occhi e parlava, parlava... ma io non la sentivo più. Mi girai come le altre settantatre volte e me ne andai verso la porta, scoraggiata e delusa! Non sapevo se avrei avuto il coraggio di tornare ancora.
Non ne posso più di quella.
E' tutta colpa sua, mi fa paura come mi guarda,
e poi quella voce...
...la prossima volta la uccido!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

mercoledì 11 dicembre 2013

Oltre il mare...

Mi ero sempre chiesto cosa ci fosse oltre, dietro la linea quasi invisibile che separava il mare dal cielo, l'orizzonte.
Quando ero piccolo andavo a pesca con mio padre sugli scogli di perd 'e pera, una piccola spiaggia vicino a Gairo, ormai cancellata dal mare.
Ci si alzava presto, alle cinque, e si usciva silenziosamente dalla tenda da campeggio, facendo attenzione a non svegliare i miei fratelli più piccoli. Era un percorso ad ostacoli, la tenda non era piccola ma vi abitavamo in sei e lo spazio era sfruttato al massimo.
Si trattava solo di venti giorni all'anno ma erano i migliori che potessi desiderare e me li godevo appieno, per quanto era nelle possibilità di un bambino di sette anni.
La cosa che più amavo era guardare il mare, mentre mio padre pescava.
Osservavo le onde, sentivo il rumore della risacca, guardavo le figure che le onde disegnavano sulla spiaggia, ma soprattutto pensavo a cosa ci fosse oltre, oltre quella linea d'orizzonte che sembrava disegnata con i pastelli, soprattutto al mattino, quando albeggiava.
Di solito arrivavamo sulla spiaggia al pomeriggio, montavamo la tenda dove trovavamo posto e poi si andava a fare la spesa per la settimana nel vicino paese. La sera il primo bagno e poi, sul tardi, dopo cena, mentre i grandi giocavano a carte e i miei fratelli correvano rumorosamente sulla spiaggia, io amavo sedermi a scrutare le onde al tramonto.
Che fine farà l'orizzonte la notte?
Mi chiedevo, senza realmente cercare una risposta.
Sapevo bene che lui era sempre li, nascosto alla vista dal buio che piano piano diventava sempre più nero.
Il mare mi affascinava ma allo stesso tempo mi faceva paura. Cercavo sempre di stare dove potevo vedere cosa avevo intorno. Solo una volta entrai in acqua col buio, per un bagno di mezzanotte con gli amici, ma l'impressione che mi fece fu tremenda. Non sopportavo di essere circondato da quel liquido nero, con i suoi riflessi iridescenti, al cui interno si nascondono i peggiori incubi del proprio inconscio. No, il mare non era per me, decisamente.
Crebbi e dimenticai, ad un certo punto, non so perché, smettemmo di andare al mare tutti gli anni. Forse la spiaggia era stata portata via da una mareggiata, forse non si poteva più campeggiare liberamente, forse eravamo semplicemente cresciuti e le abitudini erano cambiate, chi può dirlo, io non lo ricordo.
Dimenticai le ore passate a guardare l'orizzonte, dimenticai i disegni delle onde sulla spiaggia e i colori pastello del mare al tramonto, dimenticai quei momenti di assoluto silenzio e mi buttai a capofitto in una vita di affanni e di lavoro, in cui il tempo per pensare era sempre meno, in cui il tempo per osservare in silenzio era riempito dal frastuono dell'umanità!
Poi una sera, percorrendo una strada lungo il mare, dall'altra parte di quel mare che frequentavo da bambino, oltre l'orizzonte di quando ero piccolo, mi fermai lungo la spiaggia.
Senza pensarci guardai il mare, vidi ancora una volta l'orizzonte lontano, colorato di quei colori che avevo visto tante volte ma che ogni volta erano diversi, mi sedetti affascinato a scrutare il mare e mi tornò in mente la domanda che mi ero posto tante volte quando ero piccolo.
 
Cosa ci sarà oltre l'orizzonte?
 
Mi domandai, un'ultima volta...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

martedì 10 dicembre 2013

Turris Libissonis

Turris Libissonis... l'antico nome di una cittadina in provincia di Sassari, oggi conosciuta col nome di Porto Torres.
Città di mare, porto da sempre, nei primi anni del nuovo millennio aveva vissuto un periodo di crisi a causa della fallimentare politica industriale. Una serie di amministratori incompetenti a tutti i livelli aveva fatto sì che la cittadina si spopolasse.
Nel 2020 contava 15.051 abitanti, nel 2030 era scesa a 12.893.

Poi c'era stata la rinascita, Porto Torres si era ritrovata ad essere una cittadina turistica.
Col tempo aveva sostituito la più nota Alghero ed ora era diventata la meta preferita dei ricchi turisti "mordi e fuggi" di tutto il mondo.
Ma andiamo con ordine.

Tutto ebbe inizio per caso o, forse, per un bicchiere di troppo di quell'ottimo vino prodotto nella vicina cantina di Sella e Mosca, sulla strada per Alghero.
Ricordo ancora quella sera di cinquant'anni fa, eravamo cinque amici, stanchi e un po annoiati. Discutevamo della cena, maialetto arrosto e gamberoni accompagnati da antipasti, dolci e vini tipici del luogo. Serata indimenticabile!
Un goccio di filu ferru barricata, acquavite invecchiata in botte di rovere, aveva aggiunto un pizzico di allegria che non guasta mai, un po' di vitalità ad una serata che rischiava di spegnersi prima del tempo.
E così, tra una parola e l'altra era arrivata l'idea vincente.
In verità era stato Gavino, Gavì per gli amici, a convincerci, con la sua parlantina da istrione, appollaiato sulla sua sedia e con una conchiglia rovesciata a mo' di posacenere al fianco, era un tipo caratteristico, geniale, nel suo piccolo!
Gavì era un "ricco borghese", come amava definirsi lui. Aveva ereditato una piccola azienda agricola e passava le sue ore libere, dopo il tramonto e fino a tarda notte, a piantare alberi sul suo terreno, e noi lo aiutavamo senza capir bene il perché!
Preferiva olivi e querce, ma non si faceva problemi se gli capitava sotto mano qualche albero di frutta, qualche pino o un ontano del giappone (Alnus maximowiczii come teneva a precisare) finito chissà come in Sardegna!
Andava avanti così per mesi, ogni anno degli ultimi dieci anni, ed era già arrivato ad una miriade ma non accennava a smettere. Il terreno allora costava poco, anche a causa della crisi ormai cronica, per cui ogni anno alcuni ettari di terreno incolto si aggiungevano alle sue già cospicue proprietà.
Voleva ricreare un bosco... "un bosco incantato tra le montagne della Nurra"... diceva sempre lui! Come quello che ricopriva l'isola prima dell'arrivo dei Cartaginesi, popolo infido e crudele, che nel V° secolo a.C. aveva distrutto tutte le piante per togliere ai Sardi il sostentamento e la voglia di combatterli. O come era prima che lo sfruttamento dei piemontesi, nel 1800, per farne carbone, trasformasse nuovamente l'isola in una tavola brulla e polverosa.

Un bosco in cui muoversi

"a bordo della sua carrozza,
un metro al di sopra del fango dell'Umanità,
diretto alla sua baita solitaria",

amava canticchiare con voce sommessa, mentre lavorava al suo progetto. Un bosco in cui vivere lontano dal mondo, un bosco in cui passare le ore del suo ultimo tramonto.
Chi poteva dargli torto? Il suo era un progetto in cui credere e noi lo ascoltavamo, incantati, e ogni sera lo aiutavamo ad aggiungere dieci, cento nuovi alberi al suo sogno. Questo finché il lavoro non fu terminato!

Una sera Gavì ci aspettava intorno alla tavola imbandita della sua casa di campagna, in cima alla collina più alta della zona. Ci portò sulla terrazza e ci passò il binocolo che solitamente portava appeso attorno al collo.

- "Guardatevi attorno", disse con soddisfazione.

Il bosco si estendeva a perdita d'occhio, a nord fino il confini della città di Porto Torres, fino al mare azzurro chiaro che bagnava le coste della Nurra, fino ad Alghero ad est. Era un susseguirsi di chiome colorate di mille differenti tonalità di verde, giallo, castano. Alberi di tutte le forme e di tutte le dimensioni si stagliavano contro il cielo e ospitavano ormai una ricca fauna, non più costretta a condividere i pochi cespugli di lentisco.
Il lavoro di una vita era finito!
Dove un tempo c'era solo terra e roccia rossa ora c'era un bosco, con tanto di animali, laghi e fiumi, pesci e farfalle.
Un bosco, in un mondo di acciaio e cemento e reti di computer e sommergibili e armi nucleari e viaggi su Marte, ormai colonia della Terra. Dove le città avevano sommerso tutto, cancellato ogni forma di vita diversa da quella umana, dove gli oceani cedevano spazio alle nuove isole, enormi chiatte di spazzatura, poi riutilizzate per costruirci i nuovi quartieri popolari...

Turris Libissonis, Porto Torres per i più, era ormai l'ultimo angolo di natura.

Creato da un uomo, un piccolo uomo di nome Gavino, per chi come me l'aveva conosciuto. Gavino, come il santo protettore della Città.
Un grande benefattore per tutti coloro che ogni anno potevano godere di quel nuovo angolo di paradiso!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

lunedì 9 dicembre 2013

Jorges Luis Borges: Finzioni

Talvolta si inizia per caso la lettura di un libro, talaltra lo si fa guidati da un motivo, più o meno valido.
Così, questa settimana ho affrontato un autore di cui non avevo mai letto niente: Jorges Luis Borges (1899-1986).
Argentino di nascita, fu scrittore, poeta, saggista, traduttore, docente universitario e direttore della Biblioteca Nazionale di Buenos Aires.
Lo spunto per la lettura mi è arrivato da un fumetto, un numero di Martin Mystere in cui la storia era incentrata proprio sul nostro Borges.
Così dopo una breve ricerca nella biblioteca ho iniziato la lettura di Finzioni (La biblioteca di babele) nella edizione Einaudi del 1978.
Ma prima di andare avanti voglio riportare uno stralcio della quarta di copertina, da cui si può capire a cosa andavo incontro, avrei dovuto leggerla prima del libro!
"Nel presentarli al pubblico italiano (i racconti) Pietro Citati scriveva: <<Devoto alla logica e alla simmetria, elegante geometra dell'intelligenza, le epoche che egli predilige sono tuttavia quelle più profondamente sofistiche, insieme razionalissime e bizzarre, matematiche e magiche, nelle quali la ragione distrugge se stessa nel momento che trionfa..."
Non che l'aver letto la quarta di copertina mi avrebbe impedito di leggere il libro, ma mi avrebbe messo sull'avviso!
Detto questo, vi chiederete cosa penso del libro.
Vi rispondo che non lo so!
Diciamo meglio, ancora non lo so!
E' la prima volta che mi imbatto in storie simili, e dire che di libri ne ho letti tanti, e di tutti i generi!
Eppure, in questi racconti c'è qualcosa di strano.
Il tempo, lo spazio, gli intrecci delle storie, sono particolari, difficili da seguire. Ogni racconto sembra scritto tenendo a riferimento l'idea del labirinto, della stanza degli specchi, del tempo avvolto su se stesso. Il risultato è che i racconti in alcuni tratti non sembrano dei racconti, in altri tratti appaiono invece essere troppo fantasiosi.
Vi chiederete se mi sia piaciuto, anche in questo caso la risposta è: non lo so!
Devo pensarci su e, forse, rileggerlo più avanti, come ho fatto con altri libri quando mi rendevo conto di non essere in grado di capirne il significato.
Ecco, probabilmente dovrò aspettare... anche se leggere "Pierre Menard, autore del Chisciotte", mi ha fatto sorridere!
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

domenica 8 dicembre 2013

L'ultimo Natale...

Il buio era sceso per le strade di Londra.
Erano appena le cinque ma la pallida luce del giorno era già scomparsa dietro un velo di fitta nebbia.
Il vicolo era buio e sporco, bidoni di immondezza offrivano riparo a grossi topi di città.
Sulla sinistra tre gradini davano l'accesso ad una vecchia casa diroccata, lì, accucciata in un angolo, s'intravvedeva la sagoma di un uomo, avvolto in una vecchia coperta di lana grossa.
Solo una scarpa sporgeva dalla vecchia coperta, tirata fin sopra i capelli, come a proteggere il volto dal freddo pungente.
In terra una scodella sbeccata di ferro smalto, con dentro poche monete, fungeva da chiaro invito a fare della beneficenza.
Il vicolo dava su una strada ricca di luci e vetrine.
La gente passava di continuo senza mai voltare lo sguardo verso quello che era un angolo buio dell'umanità!
Ricchi signori accompagnavano eleganti signore alla ricerca degli ultimi regali di Natale, abbigliati con pesanti cappotti, colorati cappellini e grossi guanti di pelle. Abbagliati dalle vetrine colorate, preparate per prendere in trappola ricchi avventori, i passanti passeggiavano velocemente, stimolati dal freddo.
La ricca opulenza della strada contrastava fortemente con il buio sporco del vicolo, ma così è Londra, come tutte le grandi città in cui l'umanità si concentra.
Ricchezza e povertà, due facce della stessa medaglia: l'Uomo!
Se qualcuno avesse potuto guardare sotto la coperta, avrebbe visto due occhi grandi, lucidi, azzurri come il ghiaccio, in fervida attesa.
Avrebbe potuto vedere un uomo forte, nervosamente pronto all'azione, ben diverso dall'apparente fragilità dell'accattone che attende un obolo che non arriva mai. Avrebbe potuto toccare il freddo coltello che teneva stretto nella mano destra, in attesa della propria vittima.
Se qualcuno avesse potuto penetrare nel suo cervello vigile avrebbe letto una serie di immagini terribili, che si ripetevano simili nella sua mente. Un passante si avvicina, tende la mano verso la ciotola per attenuare i suoi sensi di colpa particolarmente vivi a natale. Una lama fredda come il ghiaccio si avvicina al suo collo. L'obolo si trasforma in rapina! Il mendicante si allontana rapidamente. Voltato l'angolo buio si libera della coperta e si allontana lentamente stavolta, confuso tra la folla.
Era il suo modus operandi, e rendeva abbastanza.
Talvolta capitava che lo sventurato urlasse, allora doveva scappare velocemente, ma accadeva raramente, solitamente tutto filava liscio.
Quella sera aveva scelto attentamente il posto, era un vicolo con una doppia uscita, alcuni bidoni dell'immondezza che impedivano il passaggio alle auto e buio a sufficienza per realizzare il suo intento, occorreva solo attendere.
Una coppia passava proprio in quel momento. Lo guardarono di traverso, lui infilò la mano nella tasca alla ricerca di qualche moneta ma lei lo tirò via, bruscamente, con sospetto, quasi presentendo il risultato di quell'atto di generosità!
Due mocciosi attraversarono di corsa il vicolo, rincorrendo un cane che si fermò un attimo ad annusargli le caviglie. Lo allontanò con un calcio e si risistemò la coperta sul viso, ritornando al precedente stato di immobilità. In vigile attesa come un pescatore in riva al fiume, come un cacciatore alla posta.
L'attesa era la parte peggiore, il freddo era sempre intenso e non ci si poteva muovere, occorreva stare immobili, come facevano quelli veri, di accattoni.
I due ragazzi tornavano indietro col cane al guinzaglio, questa volta tenuto saldamente dalla mano del più piccolo. Per un attimo il cane si avvicinò nuovamente alla sua scarpa, ancora un istante e l'avrebbe colpito nuovamente, ma non fece in tempo. Il più grande dei ragazzi gli era già addosso e con un coltello affilato gli trapassava il cuore.
Fece appena in tempo a capire che la morte lo portava via. I suoi occhi azzurri si scioglievano in lacrime; il ragazzo lo guardò dritto negli occhi, senza alcun rimorso. Infilò la mano sinistra nelle sue tasche, prese portafogli e orologio quindi estrasse il coltello pulendolo su un lembo della vecchia coperta.
Un fiotto di sangue caldo sgorgò violentemente dalla ferita, ma i due ragazzi erano già lontani. 
 
Un rantolo sordo fu l'ultima cosa che sentì...
quella notte di Natale, l'ultimo!
 
 
Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

venerdì 6 dicembre 2013

Inconsapevolmente vivo...

Aprii gli occhi con difficoltà. Un leggero velo sembrava interporsi tra me e tutto ciò che mi circondava.
Mi trovavo all'ospedale.
Ero confuso, sapevo cosa mi era successo, lo ricordavo perfettamente, eppure il mio subconscio rifiutava di riconoscerlo. Non era facile prendere coscienza del fatto di aver avuto un infarto.
Attorno a me altri pazienti della terapia intensiva, come me attaccati ai macchinari che permettevano agli infermieri di controllarci a distanza. Di tanto in tanto un "bip" più intenso del solito attirava la loro attenzione, qualcuno si avvicinava a controllare.
A volte si trattava della flebo che era terminata, altre volte invece gli infermieri chiamavano il medico e cominciavano ad agitarsi attorno al letto del malcapitato...
Ma tutto ciò è abbastanza normale in terapia intensiva.
Dopo qualche giorno mi spostarono in terapia subintensiva, un posto un po più tranquillo, dove ci si poteva alzare dal letto, andare in bagno senza dover chiedere la padella o il pappagallo (strumenti inventati solo per farti sentire inutile), lavarsi da soli e fare un po di vita sociale con i compagni di camera e con i visitatori. Di tanto in tanto arrivava anche qualche volontario, sempre allegro e pronto a scambiare quattro chiacchiere, anche se non sempre ne avevo voglia, oppure un parroco che si guardava intorno e poi, in silenzio, così come si era avvicinato si allontanava... quasi non volesse disturbare i nostri pensieri con presagi spiacevoli.
La notte cercavo di dormire, cercando di ignorare i dolori al petto, dimenticando il mal di schiena e tutti gli aghi che avevo infilati nelle braccia, sperando che non si staccassero i sensori, altrimenti un infermiere sarebbe arrivato a svegliarmi per riattaccarmeli, e poi chi riusciva a riprendere sonno?
Una anziana signora che stava nella stessa stanza ci intratteneva con le sue urla continue. Di notte urlava e di giorno dormiva e noi stavamo svegli.
Poi finalmente le dimissioni.
Un bel giorno il medico mi disse che dopo pranzo potevo uscire, finalmente!
Preparai le mie poche cose e ricevuto il foglio di dimissioni e delle cure da seguire rientrai a casa.
Quella notte non riuscivo a prendere sonno, la preoccupazione di non essere controllato era tanta. Stare all'ospedale dava una certa sicurezza che ora mi mancava. Ogni dolore sembrava amplificato dalla paura. Ogni battito cardiaco, ogni tremore, ogni crampo, sembrava l'annuncio di un nuovo infarto e l'inizio della fine... ma si trattava solo di sensazioni, e col tempo ci avrei fatto l'abitudine.
Nelle ore passate insonni pensavo e ascoltavo i rumori, il vento fuori dalla finestra, una macchina per strada, qualche cane abbaiare, il bisbiglio di un bambino...
Poi la mattina dopo iniziava la cerimonia dei medicinali, una, due, tre pastiglie. Quella per lo stomaco, quella per la pressione, la betabloccante, la cardioaspirina...
Solo se ti capita ti rendi conto delle libertà perdute! Ma bisogna cercare di non pensarci e andare avanti, cercando di tornare alla normalità, poco per volta.
Dopo i primi giorni potevo finalmente uscire di casa, fare qualche passo era utile, occorre camminare per riprendersi velocemente, pressione permettendo!
E la sera di nuovo a letto presto, cercando di evitare di pensare a quello che può succedere la notte. Perchè la paura è che ti addormenti e non ti svegli più!
Allora prendere sonno è faticoso, e così si passa qualche ora a rivoltarsi tra le coperte ascoltando i soliti rumori... il vento del giorno prima, che però ha cambiato direzione, la solita macchina del solito ritardatario, i ragazzi che passano sotto casa al rientro di una serata in discoteca, i bisbigli di un bambino...
Strano, è già la terza notte che un bambino passa sotto casa, per un istante, bisbigliando qualcosa di incomprensibile.
La mattina, dopo la colazione a base di te, fette biscottate e marmellata e le solite medicine, approfitto della bella giornata per fare quattro passi. Sotto casa c'è un piccolo parco, mi siedo in una panchina e mi godo il sole. Qualcuno mi passa vicino ignorandomi, ma non mi riguarda. Le fronde degli alberi si muovono spinte da un fresco venticello di primavera, i cani giocano con i loro padroni nello spazio loro riservato.
Rientro a casa e la giornata passa come le altre, mangio, leggo, mi riposo e passo il tempo cercando di riprendermi.
La notte arriva inesorabile e con il buio la solita insonnia, la solita macchina e il solito bambino che bisbiglia...
Cosa dici - penso - non capisco, non ti sento bene...
Il bisbiglio si fa più forte, poco a poco sempre più distinto, si trasforma in una voce...
Chi sei, perchè mi chiami...
 
- Finalmente, seguimi, non puoi restare più qui... il tuo posto è altrove!
 
Fu questione di un attimo. In quell'istante realizzai finalmente ciò che era successo, chi veramente ero...
Il dolore sparì, le ansie e l'angoscia mi lasciarono per sempre, la paura di morire non aveva più senso, nella mia nuova condizione di fantasma...

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

giovedì 28 novembre 2013

Sopravvissuto...

Il sole era appena scomparso dietro il profilo incerto dei vecchi palazzi della città deserta.
Pochi attimi prima la luce rossastra illuminava ancora le strade, poi, di colpo, il buio fu quasi completo. Solo gli occhi di un gatto o di un qualche animale notturno sarebbero stati utili in quelle condizioni, ma lui non era un gatto!
La temperatura scendeva velocemente. Era stato stupido a farsi sorprendere dal buio in un posto che non conosceva, all'aperto e senza riparo. C'erano tanti edifici che avrebbero potuto fornirgli rifugio ma la città era inquietante e lui aveva cercato di uscirne fuori, fino a che c'era luce.
Ora non aveva più scelta, se non voleva morire assiderato avrebbe dovuto varcare uno di quegli ingressi, dove però avrebbe potuto nascondersi qualunque cosa!
Alla sua destra si apriva un grande magazzino pieno di mostri metallici, residui di quella guerra che aveva spazzato via tutto, masse informi di ferro arrugginito, con qualche macchia di vernice qui e là.
Sarebbe stato facile trovare un riparo e, magari, qualcosa da mangiare ma ora era tardi e non era saggio continuare ad aggirarsi in mezzo a quei rottami.
Contava molto sul suo coltello, un pugnale in acciaio affilato che aveva ricavato da un pezzo di lamiera metallica e che portava appeso in bella vista a metà coscia.
Gli servì anche in quella occasione, infilò la lama tra gli sportelli di un vecchio camion e riuscì ad aprirlo. Si rintanò dentro velocemente ed in silenzio, facendo attenzione a non fare alcun rumore.
Richiuse gli sportelli dietro di se e sbarrò l'ingresso dall'interno. Per quella notte sarebbe stato al sicuro, digiuno ma al caldo.
Riuscì a dormire alcune ore.
Venne svegliato dal loro rumore, strisciante e sordo. Erano vicini. Si muovevano dentro il magazzino seguendo le flebili tracce lasciate dal suo passaggio, forse l'odore, forse riuscivano a vedere impronte visibili solo ai loro occhi.
Poi il rumore si allontanò e potè tirare un respiro di sollievo.
La notte passò rapidamente e il sole riprese a bruciare quella terra devastata dalla guerra. Le prime ore della mattina erano le migliori per camminare. Si alzò e mangiò alcuni tuberi raccolti il giorno prima.
Prima della guerra non aveva idea di quali piante erano commestibili e quali velenose ma nel giro di pochi anni era riuscito a sopravvivere semplicemente assaggiando e sperando! Poi col tempo aveva imparato a riconoscerle dall'odore, dal sapore, aveva reimparato tutto ciò che la tecnologia degli ultimi anni aveva cancellato dalle conoscenze della razza umana.
Tutte le informazioni raccolte nella rete erano ormai inutilizzabili, la rete era stata spazzata via dalle prime esplosioni, li chiamavano impulsi elettromagnetici e nel giro di poco tempo sulla Terra era scomparso qualunque componente elettronico e con essi tutte le conoscenze della rete.
Avrebbe forse trovato qualche libro ma presto si accorse che le biblioteche non curate andavano distrutte velocemente. Il nuovo clima non consentiva la conservazione della carta e alcuni piccoli insetti fecero il resto.
La civiltà umana era stata cancellata dalla sua stessa pazzia.
La guerra aveva cancellato la civiltà, il tempo aveva pensato al resto!
Era più di un anno che non vedeva più suoi simili.
L'ultima volta che aveva incontrato ciò che restava di un essere umano era restato scosso. Uno scheletro ambulante gli era apparso davanti nei pressi di un vecchio pozzo. Gli effetti delle radiazioni potevano vedersi su tutto il corpo. Un braccio era ridotto ad una escrescenza carnosa penzolante dalla spalla. Gli occhi enormi e sporgenti non avevano più niente di umano.
Come era apparso scomparve velocemente muovendosi con insolita agilità, forse spaventato.
Non era stato in grado di capire se si trattasse di un uomo o di una donna.
Da allora aveva percorso migliaia di chilometri senza veder altro che scheletri.
Lui non capiva come avesse potuto sopravvivere. Eppure così era.
Le radiazioni non avevano avuto alcun effetto, come se fosse immune. La dieta che seguiva avrebbe ucciso chiunque ma lui non aveva avuto nessuna conseguenza.
Stava bene, camminava, mangiava ciò che trovava e si spostava continuamente per sfuggire a quelle bestie che erano emerse dalla terra. Enormi vermi striscianti, per sua fortuna ciechi e lenti alla luce del giorno.
Non sapeva cosa cercava ma ormai non importava, era l'ultimo della razza umana in una Terra ormai distrutta.
Una frase gli tornava alla mente, di tanto in tanto. Ricordava il prete che gli diceva: "Polvere sei e polvere ritornerai".
Ma ancora non era arrivato il suo tempo, nonostante tutto...
forse Dio, per lui, aveva altri programmi?

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO

sabato 9 marzo 2013

Un incontro molto speciale

Era un giorno come tanti altri.
Mi ero alzato all'alba per recarmi al lavoro come tutti i giorni, domeniche comprese.
Mi ero fermato alla bottega sotto casa, come sempre, per prendere una pagnotta calda appena sfornata e due fette di lardo salato, quello sarebbe stato il mio pranzo.
Inforcata la bicicletta, una vecchia Graziella rossa, mi diressi verso la campagna.
Era ancora freddo, come è giusto che sia a febbraio in collina. Il cielo, dopo la pioggia notturna, aveva lasciato spazio ad un pallido sole che stentava ad alzarsi sull'orizzonte.

"Forse anche lui aveva freddo, pensai a voce alta".

Non voleva essere un'offesa verso l'astro nascente, semmai una constatazione.
Eppure, ciò che accadde subito dopo fu straordinario, tant'è che ancora oggi, molti anni dopo quei fatti, non sono in grado capire!
Cercherò di raccontarvi ciò che mi ricordo anche se so bene che difficilmente qualcuno mi crederà, ma poco importa. Voglio comunque lasciare ai posteri una testimonianza dell'accaduto, seppure io stesso abbia ancora dei dubbi.
L'aria era fredda, l'erba a bordo strada era ricoperta da un sottile strato di brina bianca, un velo di ghiaccio finissimo capace però di bruciare tutto come fosse fuoco.
Le pozzanghere erano ancora ghiacciate e sul fango si potevano leggere le impronte lasciate dagli animali il giorno prima. Gli uccelli iniziavano timidamente a cinguettare e io fischiettavo per passare il tempo, osservando il mio alito condensarsi in sottili fili di fumo.
Una mezz'ora e sarei arrivato, anche se la Graziella mi avrebbe fatto faticare non poco. La cosa buona era che il pedalare di continuo mi aiutava a riscaldarmi. Certo, le dita delle mani erano sempre fredde, come la punta del naso e delle orecchie, ma che ci potevo fare?
Ancora venti minuti e avrei raggiunto il cancello in legno della fattoria del mio datore di lavoro, si chiamava Igor, ed era un uomo grande e grosso, biondo di capelli e con una voce roca e cavernosa che incuteva un certo timore.
Io allora avevo appena compiuto tredici anni e avevo lasciato la scuola dopo la seconda elementare. Ero stato promosso, ma quell'anno morì mio padre e dovetti iniziare a contribuire alla vita in famiglia così mia madre mi trovò un bel lavoro, ben retribuito e mi accompagnò da Igor.
Da allora erano passati cinque anni e io intanto ero cresciuto sotto la guida severa ma onesta di quell'uomo che, un po alla volta, divenne come un fratello maggiore per me.
Il lavoro era duro, occorreva pulire il bestiame, raccogliere le uova, dare da mangiare ai conigli e ai maiali. Tagliare l'erba, raccogliere la frutta, fare il formaggio... e fin qui tutto bene. Poi bisognava mettere le trappole per i topi, rivoltare il grano, legare e pulire aglio e cipolla... e così via, di giorno in giorno, per poi ripetere il tutto, con pochissime varianti, l'anno successivo.
Magari un anno si raccoglievano più olive e si faceva più olio, oppure si trovavano meno asparagi, ma la vita era più o meno sempre quella.
Non c'era ancora la televisione a casa e il tempo per i grilli per la testa non c'era proprio. Qualche volta in testa c'erano i pidocchi e mia madre li ammazzava a furia di strofinare i capelli con l'aceto, ma il tempo per i grilli non c'era mai!
A pranzo mangiavo la mia focaccia con il lardo.
Era veramente saporita e dovevo ringraziare Igor, era lui che pagava il conto. Una focaccia e due fette di lardo al giorno erano parte del mio salario. Il resto arrivava a fine settimana. Dipendeva dalla stagione, a volte una forma di formaggio, altre volte un bidone d'olio d'oliva oppure un capretto da latte.
Così era la vita in quegli anni della mia gioventù, almeno fino ad allora, al giorno in cui, come dicevo prima, inforcata la bicicletta per andare al lavoro, incontrai quell'uomo lungo la strada.
Avevo appena detto a voce alta che forse anche il sole quella mattina aveva freddo quando, di colpo, un uomo si parò di fronte a me, quasi facendomi cadere di sella.
Mi fermai in mezzo alla strada, coi piedi puntati in terra per non cadere nel fango ghiacciato delle pozzanghere e lo guardai dal basso verso l'alto.
Era un uomo alto, con dei lunghi capelli neri, avvolto in un lungo cappotto di lana grezza di color marrone.
Stava li, in mezzo alla strada, osservando il sole che a stento sorgeva... poi, senza guardarmi in faccia, mi parlò.
Non capii subito cosa diceva, non era la mia lingua e sembrava più che altro una specie di musica, simile alla melodia degli uccelli che di tanto in tanto cercavo di imitare fischiando.
Poi, un po alla volta, il mio cervello cominciò a capire il significato di quei suoni che si trasformarono in parole e poi in frasi di senso compiuto.
Ecco cosa quell'uomo diceva:
"Io sono il Sole, l'Astro nascente, il signore della vita sulla Terra.
Terra è la mia donna, la mia sposa fedele.
Alberi sono i miei figli, come pure gli animali e gli uomini...
e tu chi sei, mio piccolo amico?"
Io lo guardavo stupito e impaurito, cercando di capire se poteva esserci modo di scappare se necessario, cercando di interpretare i piccoli movimenti dell'uomo di fronte a me, alla ricerca di una qualche minaccia da cui fuggire all'istante, anche a rischio di perdere la mia bicicletta...
Ma il tono della voce era pacato e niente lasciava pensare ad un pericolo imminente. Solo una cosa mi appariva strana, quell'uomo non guardava mai nella mia direzione ma sembrava osservare il cielo in profondità, con una specie di nostalgia, come se gli mancasse qualcosa che si trovava lontano nel cielo.
"Chi sei?" Chiesi con un nodo in gola.
"Posso passare per favore?"
Chiesi a voce bassa, ancora poco a mio agio...
"La strada è tua, piccolo amico, ma prima dimmi perchè mi hai cercato affinchè io possa tornare lassù da dove vengo senza indugio.
Non posso stare a lungo quaggiù senza gravi conseguenze"
Lo guardai fisso, cercando di vedere il suo viso, per capire perchè mi prendeva in giro... eppure più lo osservavo e meno lo vedevo. Non riuscivo a vedere il suo viso, non vedevo neppure le mani, solo il lungo cappotto scuro mi risultava visibile. Tutto il resto era li ma allo stesso tempo non c'era!
"Io sono il Supremo, l'essere sempiterno, colui che non è stato creato ma che crea e, si, hai ragione, oggi ho freddo e avrei fatto a meno di alzarmi questa mattina!"
Di colpo mi tornò in mente ciò che avevo appena detto e capii che quell'uomo era li perchè l'avevo chiamato io, avevo di fronte il Sole, solo per me, perchè gli avevo parlato!
Non sapevo che cosa rispondere, cosa potevo dirgli?
E poi, probabilmente stavo sognando ad occhi aperti e presto mi sarei risvegliato, magari a terra, sporco di fango ghiacciato!
"Perchè mi prendi in giro?
Io non ti ho fatto niente... scusa, per favore fammi passare, devo andare a lavorare..."
L'uomo si voltò verso di me e mi guardò... solo allora mi resi conto che non era un uomo. Mi sorrideva anche se non aveva volto. Mi osservava anche se non aveva occhi.
Nonostante tutto non provai paura. Mi resi conto che era un essere buono, un portatore di morte a volte, di speranza altre volte, di vita sempre.
Mi resi conto di avere un Dio di fronte e di essere fortunato ad averlo incontrato... ed essere ancora vivo!
Poi, così come era arrivato, si voltò e scomparve, ma prima disse ancora una frase che mi ha accompagnato per tutta la vita, ora giunta al termine.
"Io sono il Sole, Dio se vuoi, padre tuo e di tutti gli esseri viventi, ricordati di me ogni giorno quando rivolgi lo sguardo ad Est e io ti accompagnerò e ti proteggerò, piccolo amico mio... e grazie per avermi chiamato!"
Restai muto in mezzo alla strada, poi pedalaiverso la fattoria di Igor e proseguii la mia vita di tutti i giorni.
Da allora ogni mattina alzo lo sguardo al cielo, verso Est, e saluto il mio amico, il mio padre augurandogli una buona giornata!

Alessandro Giovanni Paolo RUGOLO